Mi è capitato già di scrivere che viviamo in un mondo davvero meraviglioso. Non ho detto nulla di originale, eppure sembra che questa nostra umanità, tutta intera, abbia qualche difficoltà a condividere questa dichiarazione. Anzi, sembra che non sia una dichiarazione di fatto, quanto solo una visione che non trova riscontro nella pratica effettiva di coloro che dicono di governarci. Quando mi trovo ad insegnare ai miei studenti della Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Parma, Cultura della Globalizzazione, presso il Corso di Laurea in Economia dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, mi rendo conto di come tutti, compreso il sottoscritto, siamo lontani dall’aver raggiunto una vera ed approfondita conoscenza dei rapporti economici ed affettivi tra coloro che sono i reali attori: gli uomini. Per questi motivi, non possiamo continuare a parlare di globalizzazione senza renderci conto, come dice l’economista Anthony Giddens, che in effetti essa ha già iniziato a modificare la nostra vita e a ridefinire i rapporti affettivi, ossia i legami, che in essa si stabiliscono. Rispetto ad una economia medievale, nella quale la dimensione temporale dei progetti di vita individuali erano affidati a Dio, che prevedeva ed organizzava tutto l’umano, in quella scaturita dalla scoperta dell’America (1492, è meglio precisare la data ad uso e consumo dei nostri politici…), la dimensione del rischio entra a far parte dello stesso concetto di progetto. Se Cristoforo Colombo non avesse rischiato di sbagliare, andando nella direzione opposta per raggiungere le Indie, non avrebbe rischiato di scoprire l’America. Nel rischio, presso il quale risiedono rassicurazioni e paure umane, abita l’avvenire scientifico dell’intera umanità, sebbene si stia perdendo, di converso, il concetto o l’idea di limite, che invece caratterizzava il periodo precedente.

Lo sviluppo dell’umanità, ora appena messo in crisi dalla scoperta di un’orma umana risalente a circa 10-15 milioni di anni, presso il lago Titicaca in Bolivia, è avvenuto grazie alla relazione affettiva che si instaura fra gli esseri umani. Avere un’affezione amorosa significa contrarre il morbo migliore che l’umanità si possa augurare: la fiducia. Senza questo tipo assai diffuso di malattia (ed incompresa dalla scienza stessa, almeno nella sua sottostante alchimia) non avremmo avuto nessun sviluppo di socialità, di vita culturale. In breve, non saremmo ciò che siamo, ossia l’incontro perfettamente confuso tra biologia e cultura, tra natura e società, pulsione di vita e strategia. Alla base di questo incontro vi è il sentimento di fiducia verso l’altro, che si sviluppa e si forma durante la relazione affettiva primaria per la nostra specie, senza la quale non avremmo la possibilità di iniziare a vivere: la fiducia nella propria madre. Proviamo a pensare se può esistere una situazione di relazione affettivamente normale che preveda una sorta di sfiducia verso la propria madre e viceversa, della madre verso il figlio. La stessa educazione si basa sulla fiducia che l’allievo, il figlio, insomma l’altro, sia fiduciosamente rivolto verso il maestro, verso colui che trasmette elementi di utilità esistenziale. Senza fiducia non si crea relazione, né si trasferisce alle nuove generazioni, come ai propri pari, alcunché.

Nella globalizzazione economica attuale ed in quella crescente affettiva, come possiamo trasferire fiducia negli altri, agli altri? Intanto, comprendendo che ogni altra persona vede noi stessi come altro. Dunque non esistono gli altri, ma solo funzioni di rapporti. Non esiste una madre senza i figli e nessun figlio è mai senza madre, anche se fisicamente essa può non essere presente. La maternità, come la paternità, non è uno status ma una funzione cioè un ruolo. Non ci vuole uno studio particolare per dare in prestito un utero ad una vita che si annida nella parete endometriale, mentre ci vuole una volontà precisa nel fornire un utero che sia un vero e proprio ambiente adatto alla vita. Non ci vuole una laurea particolare per donare uno spermatozoo ad un ovulo in attesa, ma ci vuole una volontà precisa nell’accogliere una vita che uscendo dall’utero entri nella vita accompagnata dalle decisioni paterne. In secondo luogo, tramite la fiducia verso gli altri e tutto ciò che è esterno a noi stessi si recupera il sacro delle scelte che si compiono. Ogni individuo, in qualsiasi momento della propria vita, è indotto a compiere scelte, ossia è portato dalle circostanze esterne ed interne ad orientarsi verso percorsi del proprio cammino. Questa situazione è sostanzialmente inevitabile e la si comprende specialmente durante l’adolescenza, quando i nostri orientamenti cominciano a dipendere da noi piuttosto che dai genitori. Inoltre, sempre durante l’adolescenza, si comprende che esistono percorsi che posso condividere con i miei pari, ossia i miei amici ed i miei compagni. Da una dipendenza di tipo verticistico, quella genitoriale ed assolutamente necessaria, passo ad una dipendenza più o meno paritetica, quella del gruppo. Dunque, la formazione di un sentimento di fiducia ha a che fare sia con il sentimento di sicurezza che con quello della dipendenza, all’interno dei quali riesco a pensare di percorrere un tragitto che includa l’affetto ricevuto dai genitori e quello condiviso nella fiducia con i pari, con il gruppo.

Tutto questo è globalizzazione, perché include sia l’attenzione alla propria individualità (che in termini di globalizzazione definiamo localizzazione) sia l’attenzione a ciò che si propone come diverso da noi, perché lontano fisicamente ma vicino virtualmente (che definiamo appunto globalizzazione). La consapevolezza della propria identità ci fa credere di essere originali, mentre la consapevolezza della nostra comune umanità ci fa comprendere quante sono le analogie che ci rendono banalmente simili.

Forse è giunto il momento di ricordarci che siamo tutti sotto lo stesso cielo, come dicono i miei amici napoletani e siciliani.