Tutti gli oggetti immobili ed isolati in uno spazio sono percepiti dal nostro cervello come privi di tempo. Un sistema fisso ed immutabile non presenta dinamismo fra gli elementi che lo compongono. Nel caso in cui uno solo degli oggetti o delle situazioni che costituiscono l’insieme cambi, si alterano tutti i rapporti all’interno del sistema. In questo modo, si ha un prima ed un dopo e si crea il tempo.
I cambiamenti non sono vincolati dalla presenza dell’uomo. Avvengono cambiamenti, nel mondo della fisica visibile ed invisibile, che sono indipendenti dalla nostra esistenza. Quando nella nostra consapevolezza esistenziale vi sono un prima ed un dopo, siamo in presenza di un movimento, ossia di un cambiamento. Il tempo esiste solo attraverso il prima ed il dopo, perché questi due avverbi, pur senza crearlo, sono il tempo.
Questi assunti non spiegano il tempo. Il tempo, come l’ossigeno, non può essere spiegato. Possiamo solo affermare che il tempo è inerente al cambiamento, perché implica il cambiamento. Nella fisica il tempo è una coordinata che interviene nella descrizione matematica dell’evoluzione dinamica dei gravi. Anche la concezione secondo cui un sistema di gravi in riposo subisce il passare del tempo, ha significato solo in relazione ad un altro sistema che è in movimento rispetto a questi. Questa è la visione aristotelica – ripresa poi da Leibniz e Mach – secondo cui il tempo è una proprietà degli oggetti che vanno incontro a cambiamenti.
Ogni forma di cambiamento – secondo l’ottica aristotelica, ma non orientale – comporta un rapporto matematico relativamente preciso fra ciò che si perde e ciò che si acquista. Secondo la logica classica, il cambiamento avviene fra elementi contrari, in base al quale un acquisto comporta una conseguente perdita e viceversa.La concezione del tempo, secondo questa logica procedurale, è lontana da quella newtoniana del tempo assoluto o sostantivo. Secondo Newton il tempo è una realtà ontologica a sé stante, mentre nell’esperienza quotidiana la percezione eraclitea del divenire si presenta come ordinaria. Una pera verde può diventare marrone successivamente ma non può essere – la stessa pera – simultaneamente verde e marrone.
In questo modo, il nostro concetto di divenire può essere applicato a molti aspetti dell’esistenza e può acquistare significato ed importanza particolari rispetto ad eventi traumatici. Si prenda, ad esempio, il concetto di malattia. Grazie alla nozione di tempo e movimento è possibile parlare di medicina preventiva, perché un sano può diventare ammalato se (nel tempo) si ammala. Egli non può essere contemporaneamente sano e malato. Almeno così si è creduto fino a qualche anno fa. Oggi, però, sempre per restare in perfetta armonia logica con il nostro concetto aristotelico di tempo, si sono create definizioni come border line. L’individuo border line è un soggetto sano che a volte può diventare malato, rimanendo però sano. Oppure è un soggetto malato che a volte può diventare sano, rimanendo malato.
Non tutte le forme di successione presuppongono un cambiamento. La numerazione che va da 1 a 3 non implica un cambiamento degli oggetti od eventi numerati. È il soggetto, al di fuori dell’ordine, che inserisce nella gestione mentale della realtà elementi od eventi cui egli stesso viene in contatto. In sostanza, il tempo è la misura del movimento secondo il prima ed il poi.
Altro aspetto cognitivo legato al concetto di tempo e mutamento è quello di durata, a sua volta direttamente legato a quello di permanenza. L’individuo, nella sua crescita dallo stadio neonatale a quello morituro, cambia e muta, sebbene permanga come essere vivente. Si può quindi sostenere che il cambiamento prevede una permanenza. Essere quindi identici a se stessi, seppure nel cambiamento fisiologico e mentale, è una questione temporale. Non allo stesso modo durano i numeri, che prima abbiamo utilizzato per ordinare oggetti ed eventi da 1 a 3. Il numero non può durare perché non esiste, ma è. Il numero è una classe astratta di oggetti. Egli è indipendentemente da ciò che numera. Tutto ciò che invece appartiene al dato sensibile può cambiare e permanere, anche contemporaneamente. È il caso precedente del border line. Possiamo dunque definire il concetto di durata come la continuità o permanenza nell’essere, rispetto a quanto esso stesso possa cambiare. Dio non muta, perché vive nell’eterno presente. Una condizione questa che non appartiene all’elaborazione cognitiva umana. È in effetti, assai difficile giungere ad una completa comprensione del concetto di eternità. Anzi, secondo l’opinione di chi scrive, è quasi impossibile afferrare in questo ambito limitato l’interezza dell’assunto.
Durata e successione diventano dunque due aspetti inscindibili della nostra percezione di tempo. Il passaggio da una situazione esistenziale ad un’altra dura un certo intervallo di tempo. Questo intervallo può essere più o meno lungo. Solo l’istantaneità è senza tempo, perché essa non dura. I nostri sensi non sono in grado di percepire cambiamenti in successioni cronologiche troppo ravvicinate. In questi casi, si ha la sensazione che gli eventi siano istantanei, quando è probabile che invece non lo siano.
Per Tommaso d’Aquino il tempo è la misura del durare (censura durationis), il che significa che egli considera la duratio come primigenia rispetto al tempo (Tommaso d’Aquino). Durare è però equivalente dell’essere in continuazione. In questo modo Tommaso definisce l’eternità come la misura dell’essere permanente, mentre il tempo è la misura della durata dell’essere mutevole (misura motus).
Ogni movimento dura dunque nel tempo. Al termine della durata si verifica un cambiamento di status. Nel caso degli esseri umani, come nel caso di tutti gli organismi viventi soggetti ad usura, si dura per tutto l’arco della propria vita. L’essere individui viventi equivale al durare sino alla morte. Dunque, la vita per gli organismi soggetti ad usura è identica cosa dell’essere. Gli uomini “sono” durante la loro vita, la quale è cambiamento e permanenza nel tempo sino alla morte. In questa ottica, il tempo diventa per l’uomo la censura del suo essere mutevole. In effetti, una cosa “è” mentre dura e non oltre.
Nasce il problema dell’identità nella diversità temporale. La durata fisica di oggetti ed eventi, come di organismi viventi, è la continuazione dell’identità all’interno di cambiamenti più o meno costanti. In effetti, il cambiamento può essere considerato da almeno due angolazioni: a) il cambiamento di stato, in seguito ad un moto; b) il cambiamento che avviene nel momento in cui si verifica il moto.
La percezione dell’identità è dunque soggetto a queste due tipologie temporali. Nel corso della vita si è costretti a percepirsi identici nella diversità del cambiamento. La vita umana appartiene ad una identica persona, ancorché cambi giorno dopo giorno.
Secondo questa prospettiva, relativamente conscia per ciascuno di noi, la caratteristica più evidente è la temporalità dell’esistenza fisica. L’essere umano è un individuo transitivo. Noi tutti abbiamo la sensazione – spesso travestita da presunzione – di possedere la nostra identità nella sua interezza. In realtà, possediamo la sensazione di integrità solo a pezzi, durante la creazione mentale di stati contingenti (Succi A.J., & Bertirotti A., 2004). Ciò che appartiene al nostro ieri, non possiamo riprenderlo nel nostro domani. Il possesso della nostra identità è costituito da un costante susseguirsi di perdita ed acquisto. Ogni essere umano è un mosaico, all’interno del quale il la propria identità personale è frutto dell’esperienza che gli altri individui fanno di noi stessi. La nostra esistenza si realizza volta per volta, mai simultaneamente. Anche qualora la nostra esistenza fosse spiritualmente eterna, la personale esperienza fisica della nostra identità personale sarebbe comunque e sempre temporale. Scrive G.F. Hegel che il “il tempo è l’essere che, mentre è, non è, e mentre non è, è” (Hegel G.F., 1989).

Si giunge ad un punto essenziale della trattazione: il nostro sentimento di identità è continuamente fuori da noi stessi, perché è il transito verso l’altro. Questo concetto è particolarmente efficace in una società globocentrica quale è la nostra. Non è più possibile pensare al termine cultura nella sua accezione classica, ossia intesa come struttura chiusa all’interno della quale sia identificabile, seppure con una buona dose di relativismo, un corpus di atteggiamenti e disposizioni architettonicamente organizzato. Oggi, la cultura – di qualsiasi geografia – è una “costruzione narrativa condivisa, contestata e negoziata” (Benhabib S., 2002, in Mantovani G., 2004:8). Con questo non si vuole affermare una sorta di relativismo culturale tout court, quanto soffermarsi a ragionare sulla transitività del sentimento di identità. Un sentimento che è direttamente collegato a quello della percezione temporale, alla percezione del cambiamento nel mantenimento durevole dell’idea che ogni individuo si fa di se steso.
Una civiltà globocentrica come la nostra, richiede la creazione di uno spazio neuronale e cognitivo nel quale alberghi l’ignoto ed un percorso mai prima d’ora tracciato. L’attuale condizione mondiale interculturale esige dal nostro sistema cognitivo la creazione di un sentiero che si attua nello stesso momento in cui lo si percorre. Per fare ciò è forse necessario ri-vedere il nostro stesso concetto di cultura. La nostra esistenza quotidiana, nella sua imponente ed ineludibile fisicità, è come la nostra cultura: intrinsecamente temporale. Quindi è durevole e cangiante al tempo stesso, ma non istantaneamente.
Chi scrive è d’accordo sull’idea funzionalista e strutturale della cultura. È in effetti un riferimento cognitivo importante per ogni essere umano, proprio perché è sostanzialmente una costruzione neuronale (Musio G., 2004). Il nostro modo di esternare i pensieri avviene attraverso codici analogici e digitali. Nel primo caso ci appelliamo alla comunicazione non verbale, mentre nel secondo caso ci riferiamo a costrutti semantici precisi. La costruzione della realtà è cognitivamente efficace solo sotto forma linguistica. La narrazione che noi stessi facciamo agli altri individui della nostra realtà, diventa una sorta di autonarrazione. Attraverso l’atto linguistico, ogni cultura – dunque ogni sistema di relazioni neuronali e cognitive – crea l’identità temporale dei propri membri. In questo modo si crea la rappresentazione di se stessi nella cultura di appartenenza.

“A mio modo di vedere tutte le analisi delle culture, sia empiriche che normative, devono iniziare distinguendo il punto di vista dell’osservatore sociale da quello dell’agente sociale. L’osservatore sociale – sia egli un narratore o un cronista del diciottesimo secolo, oppure un generale, un linguista, un riformatore educativo del diciannovesimo secolo, oppure un antropologo, un agente segreto, una persona che lavora nelle agenzie per lo sviluppo del terzo mondo del ventesimo secolo – è quello che impone, di concerto con le élite locali, unità e coerenza alle culture come entità osservate. Qualsiasi visione delle culture come sistemi chiaramente delineati è una visione che dal di fuori e genera coerenza a fini di comprensione e di controllo. Chi partecipa di una cultura sperimenta al contrario tradizioni, riti, storie, rituali e simboli, strumenti e condizioni materiali di vita attraverso resoconti materiali condivisi, ma anche contestati e contestabili. Dal di dentro una cultura non appare come un tutto compatto ma è piuttosto un orizzonte che si allontana ogni volta che ci si avvicina ad esso” (Benhabib S., 2002, in op. cit.:19).

Il sentimento di appartenenza diventa oggi più che mai allargato. Assume confini geograficamente virtuali.

“Non dobbiamo immaginare il regno della cultura come uno spazio con delle frontiere e un territorio racchiuso al suo interno. Il regno della cultura è interamente distribuito lungo le frontiere. Le frontiere sono dappertutto, attraversano ogni suo aspetto. Ogni atto culturale vive essenzialmente sulle frontiere. Se viene separato da esse perde il suo fondamento (…)”(Benhabib S., 2002, in op. cit.:18-19).

Si tratta di confini che il grado esasperato – spesso ingestibile – della facilità di comunicazione impone. Si pensi ad Internet, grazie o dis-grazie al quale si può comunicare in tempo reale ed entrare in contatto con confini culturali inesistenti.
Siamo tornati al nostro punto di partenza: il tempo, il movimento e i confini della nostra identità. In altra sede chi scrive ha già parlato di perimetro mentale, ritenendo che questo dovesse necessariamente allargarsi. Unica soluzione per la gestione della negoziazione culturale (Bertirotti A., 2004). Il nostro perimetro mentale è direttamente collegato alla percezione del tempo. Il cosiddetto tempo pubblico – che a volte coincide con quello soggettivo privato – è collegato alla misura culturale della durata. Ogni individuo possiede il concetto di settimana, appreso durante gli anni di alfabetizzazione scolare. La dimestichezza quotidiana con il concetto di settimana ha poi permesso ad ogni individuo di introiettare cognitivamente l’assunto con una relativa facilità. La settimana però non esiste in natura, sebbene si formi sulla naturalità del ciclo giorno-notte per un numero preciso di cicli, appunto sette. Secondo Aristotele, il tempo-misura è una costruzione della ragione basato però su dati della natura. L’esempio appena proposto appare chiarificatore in merito.
L’elaborazione cognitiva del tempo è olistica, cioè totale e generalizzabile. Abbiamo tutti la concezione del giorno, sebbene questo si esplichi secondo una successione cronologica di minuti. Il tempo della natura è un farsi in continua evoluzione, rispetto al tempo della mente che incorpora il dato temporale come un tutto compiuto. Secondo l’opinione di chi scrive, questo stesso processo mentale viene applicato anche alle questioni dell’identità e delle culture. Il cervello segue la necessità fisiologica di controllare i dati della realtà, pena la nascita di un sentimento intollerabile di inadeguatezza. Il risultato di questo processo è la formazione di un sentimento di definitezza illusorio, che non tiene conto del mutamento costante. Proviamo a pensare cosa accadrebbe qualora decidessimo di concepire la nostra vita esclusivamente come una successione ininterrotta di fasi aperte: sgomento e paura. Il nostro cervello necessita di percepire la realtà secondo una costanza cognitiva, grazie alla quale ad un evento primario segue generalmente uno solo od un gruppo preciso di effetti. La visione causale del mondo è necessaria alla stessa sopravvivenza. In nome di ciò, tutti gli elementi che possono deludere la nostra aspettativa causale sono potenzialmente minacciosi.
La percezione del tempo-misura è la trasposizione cronologica dello spazio-misura e viceversa. Ciò significa che l’essere umano necessita di attuare procedimenti logico-matematici grazie ai quali sia il tempo sia lo spazio debbono essere misurati. La misura è oltre la natura, pur restando un espediente perché il nostro cervello non si percepisca in solitudine: stabilire una successione misurabile afferma la mia funzionalità logica. Sono io che ordino sia il tempo e lo spazio, perché al loro interno individuo elementi discreti facilmente numerabili (nel caso del tempo) e localizzabili (nel caso dello spazio). Purtroppo, la situazione interculturale odierna è paradossalmente contraria: il sentimento di non solitudine, quindi di appartenenza, è diventato implosivo e l’inadeguatezza esistenziale è diventata esplosiva, e nel senso letterale dei termini.
Questi ragionamenti conducono ad una riflessione relativamente significativa. È forse giunto il momento di avvicinarci ai concetti di tempo, di spazio e di misura lasciando che le definizioni giungano dalla natura, dalla sua disarmante semplicità, ma nel contempo dalla inderogabile determinazione. È giunto il momento – come dice una mia cara amica, Maria Paola Orlandini – di rinaturalizzare la natura per ricelare il mistero della vita e dell’universo. In effetti, la vita appartiene a tutti gli organismi che abitano questo mondo. Anche all’uomo… sebbene nasconda mirabilmente questa consapevolezza.

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